Prezzo per persona bevande incluse: 123 €
Recensione
Cenando nel giardino del Povero Diavolo, con un’arietta fresca e la rupe illuminata che incombeva su di noi, mi sono sentito finalmente in vacanza. Forse anche per questo ho conservato uno splendido ricordo della cucina di Pier Giorgio Parini, che mi è rimasta impressa assai più di quella di altri ristoranti più blasonati provati quest’estate.
La lunga successione di portate del menu Tipico Terrestre ci ha regalato almeno un paio di capolavori assoluti – il riso in bianco e le animelle – ed in generale piatti caratterizzati da una grande “chiarezza” gustativa, una tensione ad isolare sapori a volte conosciuti a volte spiazzanti.
Dopo uno stuzzicante benvenuto, un cubo di mortadella di coniglio e ciliegia, una piccola pannocchia ed una cialda con una crema di zucca, ci è arrivata come appetizer una zuppa di squaquerone, crema di melanzana e erbe che a posteriori sembra il manifesto della cucina di Parini: leggerezza, pulizia, grande acidità venata dal sapore degli elementi vegetali, qui melanzana, basilico, misticanza e chissà che altro.
Del trittico iniziale di piatti di pesce ricordo in particolare l’eccellente carpaccio di muggine, gelato al limone, capperi e coriandolo, mentre mi ha entusiasmato meno il calamaro ripieno di pomodoro, pesche, polvere di wasabi e falso pepe rosa, con la nota dolce preponderante forse non sufficientemente bilanciata dalle polverine coreograficamente presentate sul piatto. Molto buono il tonno con fagioli e crema di fagioli al basilico, probabilmente due tagli dello stesso pesce cotti in maniera differente.
Con il riso in bianco abbiamo toccato il punto più alto della cena e della mia estate gastronomica. Cotto in acqua di pomodoro, con burro acido, levistico e pepe di sechuan, questo piatto incarna la quintessenza della freschezza e dell’acidità. Parlando con la signora Stefania, squisita padrona di casa, mi sono spinto a chiederle un assaggio per la colazione del giorno dopo, ma purtroppo non mi ha preso sul serio.
Si torna sulla terra, ma non poteva essere altrimenti, con gli spaghetti Cavalieri con ragù di lumache, piatto appagante e materico quanto concettuale e tranciante era il precedente. Divertente la portata successiva, una metà carne in cui un elemento è il manzo crudo, mentre l’altro, sempre rosso, è... da scoprire. Abbiamo pensato allo zenzero per via della frizzantezza, alla polpa di peperone per la consistenza, mentre la divertita proprietaria ci ha assicurato che era cocomero cotto. Una volta svelato l’arcano si recupera alla memoria anche la nota dolce, quasi zuccherina, che in effetti caratterizza il piatto. Spiazzante.
Le due portate seguenti ci hanno serenamente traghettato verso i fuochi d’artificio finali. Il pomodoro arrosto ribalta la classica carne al sugo: è in realtà un pomodoro “al sugo di carne” (che forma una crosticina deliziosa sull’ortaggio) arricchito da una crema di agrumi e dalla nota acida del kefir. Cottura esemplare per la cipolla, croccante ma ricca di liquido, del pane e cipolla. Il pane è presente sotto forma di gustosa salsa.
Le animelle, gemme d’aglio, confettura di pesche sono la seconda portata memorabile. Freschezza dell’aglio, croccantezza delle gemme, morbidezza e untuosità delle animelle, appena scottate, e del brodo presente sul fondo del piatto, dolcezza della confettura e delle animelle stesse. Piatto da ricordare, a lungo. La signora Stefania viene a raccogliere le impressioni su questa preparazione che azzardano solo nel menu degustazione, e visti i complimenti con cui la sommergiamo decide forse di premiarci con l’ultimo piatto di carne. Ci chiede se siamo già sazi e verificata la nostra disponibilità a sacrificarci ancora ci propone tutto il piccione: royale, raviolo ripieno di frattaglie e petto semplicemente cotto al rosa. Una chiusura spettacolare della parte salata della cena.
Dopo una deliziosa mini cassata arriva il dolce forse più controverso di sempre, tra me e la mia metà: sempreverde, un rettangolo di cioccolato bianco, sormontato da una granita al levistico, chartreuse, erbe e un sorbetto al dragoncello. Il dolce complesso ma rinfrescante che vorrei sempre alla fine di una degustazione come questa per me, “il dentifricio” per la mia ragazza, che deve cercare (e trovare) la sua soddisfazione nella piccola pasticceria.
Dopo tutti questi superlativi, un solo appunto, che riguarda l’accompagnamento al calice. Proposto all’onestissimo prezzo di 35 € a persona (“con cui copro appena il costo delle bottiglie” ci dice il patron Franco Fratti, tanto sulle sue quanto invece affabile è la moglie) prevede la sequenza classica bianco, rosato, rosso, vino dolce. A parte lo strepitoso Cerasuolo Valentini imbottigliato da loro, che con questo menu sarebbe andato benissimo quasi a tutto pasto, le altre proposte non sono certamente adeguate al livello della cucina, né sembrano pensate in abbinamento con i piatti: il discreto Pignoletto iniziale rimane gradevole, ma il Noi di San Patrignano, già molto lontano dalle mie corde, è un vero e proprio attentato al magnifico piccione, mentre il modesto P.X. finale non c’entra nulla con il dessert (oggettivamente poco convenzionale) e si può bere solo con la piccola pasticceria. Va detto che il rabocco è praticamente libero, ma non mi era mai capitato di trovare tanta distanza tra cucina e cantina. Abbiamo dato solo un’occhiata alla carta dei vini, che ci è sembrata piuttosto ampia con molte referenze classiche e ricarichi umani.
Per questa cena abbiamo pagato 246 €, di cui 170 € per i due menu, 70 di vini e 6 € per due bottiglie d’acqua. Conto giusto, che vale la pena di integrare pernottando in una delle camere della locanda, per godere del gusto con cui sono arredati tutti gli ambienti e della miriade di bei libri sparsi un po’ dovunque.
Una bella esperienza che cercherò di ripetere al più presto, sia per non perdermi i nuovi piatti di Piergiorgio Parini sia per godere nuovamente della magica atmosfera che si respira in questa locanda arroccata e seminascosta sotto la rupe di Torriana.
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