Prezzo per persona bevande incluse: 45 €
Recensione
La grande piazza circolare di Badoere con i suoi portici è bellissima: oggi una breve nevicata la rende piacevolmente austera, fosse una persona sembrerebbe assopita. Allo stesso modo l’atmosfera gastronomica di questa Marca Trevigiana è sonnacchiosa, diffidente nei confronti di qualunque novità e premiante nei confronti di una tradizione arida ed "autoreferenziale", con le sue trattorie tutte uguali e i pochi ristoranti più vocati al banchetto della cerimonia che alla soddisfazione dei palati un po’ meno accomodanti. Se il Gellius di Oderzo rappresenta una interessante eccezione, a due passi, tra i monti del bellunese, i buoni indirizzi sono decisamente più diffusi e consolidati.
Chissà se Ivano Mestriner riuscirà a scuotere la monocorde linea di cucina questo splendido e ancora poco noto angolo di confine tra la pianura padana e le Alpi?
Siamo venuti a vederlo lavorare “dal vero”, attraverso quel vetro che separa la cucina a vista di questo piccolo locale il cui arredamento minimal-chic è ingentilito dal legno del parquet e delle pareti: non guasterebbe un tocco di calore in più, ma il luogo è comunque accogliente e raccolto attorno ai pochi tavoli distanziati in modo corretto.
Allo stesso modo il servizio è professionale e discreto, forse un po’ troppo defilato e poco partecipe: di nuovo, voglia di attenzioni.
Ci siamo portati alcune bottiglie da assaggiare: anche se non si tratta di una ostentazione di rifiuto per la carta dei vini, ancora in evoluzione, male non sarebbe se venisse tentata una valorizzazione delle numerose valide etichette che si trovano sul territorio a prezzi assolutamente abbordabili: e non si parla soltanto di Prosecco, no davvero.
Il primo a finire nei calici, all’apice della sua maturità e per questo ancor più goduto, è un Greco di Tufo 99 dell’Azienda Mariella di Avellino. Bella evoluzione, gran naso, più sottile ma incisivo e molto piacevole alla beva.
Va da sé che non ci siamo limitati a guardare lo chef al lavoro con la sua piccola brigata, io ed altri tre amici ne abbiamo anche potuto apprezzare i vizi e le virtù: le seconde prevalgono sui primi, ma da un giovane promettente alle prese con questa provincia ostica ci si può e ci si deve aspettare una concentrazione maggiore e un’attenzione spasmodica ai dettagli.
Perché allora presentare tra gli appetizer un’opera tanto potenzialmente golosa quanto senza una precisa personalità e frutto di una improvvisazione forse troppo disordinata, come questo connubio di terra e mare, una vellutata di piselli nella quale navigano nella scodellina senza una meta seppioline, moscardini e tenerume? Eppure l’idea c’è.
E quel magnifico midollo servito nel suo osso, per quale motivo arriva con l’anello di cipolla rossa fritta a sovrapporsi ad una più che evidente e godibile dolcezza naturale? Una lamella di sale e voilà, ci siamo.
Al terzo piccolo assaggio un sensibilissimo olfatto scova un pizzico di uovo crudo in una fragrante e gustosa sarda fritta impanata con farina di mais. Sempre i soliti dettagli.
L’intenzione è di assaggiare il più possibile tra le proposte della cucina, così ordiniamo piatti diversi con l’idea di condividerli: i pareri di quattro palati sono certamente più completi e con loro la ricchezza delle diverse sfumature che si possono cogliere.
C’è un leit motiv che percorre come un divertente paradosso tutte le portate che precedono i desserts: il filo rosso è fatto di una dolcezza di fondo che emerge inesorabile da ogni boccone e che ci abbandonerà, appunto, al momento del dolce.
Che dire quindi della splendida créme brulèe al foie gras e tartufo? Una profusione di sapori squisita e dolce!
Delicato e soave lo zampetto di vitello farcito alle castagne con salsa verde, molto interessante con il suo finale acidulo la crema di diaframma emulsionata con acqua minerale e fior di sale.
Eccellente, di una splendida consistenza il rognone al porto con la purea di finocchio all’arancio.
Aspettiamo a lungo l’aprirsi alle narici il Mas Bruguiere Les Muriers, bianco francese del 2002: uno spunto interessante che però non si smuove, peccato, anche perché il suo bel colore ci aveva lasciato presagire un’esperienza più intensa. Da dimenticare invece, con la speranza che non ce ne siano altri, il “Quadratura del cerchio - 4° viaggio 1998”, uvaggio di Montepulciano, barbera e carmenère della marchigiana Fattoria San Lorenzo, monolitico e gessoso nella sua impenetrabile oscurità.
Tra i primi piatti, molto invitante la vellutata di fagioli cannellini con radicchio di campo all’aceto e cotica croccante, alla quale vanno soltanto due appunti: Lamon è vicina, perché non quei gustosi borlotti al posto dei cannellini? E poi, la cotica leggermente troppo elastica. Anche qui dettagli: manca poco e andiamo davvero bene.
Le tagliatelle al curry con ragù d’anatra hanno soltanto un problema di denominazione: si chiamasse “ragù con tagliatelle” il piatto sarebbe perfetto, stante la sproporzione del quasi eccellente condimento. Indovinate un po’? Vira leggermente sul dolce, una piccola correzione di sapidità ed ecco che ci siamo.
Molto buoni, anche se non all’apice dell’originalità, i tagliolini all’uovo con cibreo di pollo, mentre, ed è un peccato perché l’insieme ci sarebbe, specie se il frutto venisse lasciato a pezzettini più grossi, il risotto alle castagne con tartufo nero è davvero eccessivamente al dente.
Nell’attesa dei secondi vengono stappate le ultime due bottiglie: austero e con una vita ancora lunga davanti a sé, il Pomerol Chateau L'Eglise Clinet del 1993, rivela i limiti di un’annata piccola ma conserva il sapore affascinante di un grande blasone.
Il Blauburgunder Riserva 2000 della piccola cantina di Josef Niedermayr non delude e si conferma un vino di buon livello e bella persistenza.
Gran gioco le “trettrippe”: di pollo, splendide, ma che strage di ruspanti!, maiale e vitello in secondo piano, ma ugualmente godibili.
Qui sorge spontaneo un quesito, che potrebbe anche essere un monito: quanto vale la pena insistere sulle frattaglie? Quanto insomma è il caso di battere su un tasto che Mestriner controlla con sicurezza, senza che il contraltare sia rappresentato dal limite di un’eccessiva specializzazione? Che Ivano sappia maneggiare con grande maestria le parti meno nobili e più dimenticate è un dato di fatto, che queste possano limitare la sua espressività in cucina appare come un rischio concreto.
Molto buona e ben eseguita, anche se non porta all’estasi, la guancia di vitello da latte sanato con gnocchi di polenta alla salvia, mentre il piccione cotto a bassa temperatura con pera al vin brulé, scaloppa di foie gras e fazzoletto di pinza è davvero ghiotto, anche se pure in questo caso non si sente la necessità imperiosa della pinza sulla carne già dolce del volatile.
Al momento dei pre-dessert una bellissima sorpresa è il caco ridotto a tocchettini nel suo sugo con una delicata spuma di castagna, la cui consistenza è intrigante e per nulla inconsistente: corroborante, valido passaggio alla parte finale del pranzo.
Il paradosso dolce-salato trova il suo culmine con la splendida panna cotta accompagnata da una liquirizia gradevolmente amara e un gelato alla cannella di una impagabile, gradevolissima setosità a far da supporto ad un plumcake, un po’ troppo gommoso come rischio della cottura di proporzioni troppo piccole, alle mele con salsa all’anice stellato.
Insomma, lo chef ha una bella mano, belle idee e un’età che gli consente di affinare le sue tecniche: poca improvvisazione, tanta concentrazione, ancora attenzione al territorio, frattaglie meno incombenti, una maggior misura sul dolce e cura meticolosa dei dettagli potranno dare grandi soddisfazioni a lui e a noi golosi in cerca di novità di livello ad un prezzo, davvero onesto, che sta sotto i 50 € escludendo i vini.
In bocca al lupo al giovane Ivano: ci rivedremo presto.
(Marco Colognese)
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