Prezzo per persona bevande incluse: 162 €
Recensione
Apprestarsi a scrivere di un luogo di culto dei più eminenti esperti, il grande Raspelli in testa, da anni ai vertici della ristorazione del nostro paese, pur da semplice amatore quale io sono, richiede un approccio di grande umiltà. Sarò in grado di (de)scrivere, sarò capace di esprimere un giudizio senza vagare da un’ovvietà all’altra? La risposta, va da sé, non la conosco, ma nulla mi vieta di provarci.
L’esperienza si è rivelata allo stesso tempo istruttiva e appagante: tenterò di dare uno sviluppo ad entrambi questi attributi.
Raggiungere Runate, località di Canneto sull’Oglio immersa nel verde di un bellissimo parco naturale, non è comodo da Bologna, ma trattandosi di un pellegrinaggio si affronta con la dovuta devozione. Ringraziando la tecnologia satellitare che impone l’uscita al casello di Parma e guida sicura attraverso l’omonima provincia, per sconfinare prima nel cremonese e poi finalmente nel mantovano, si passa in auto almeno un’ora e mezza.
Dal paesino di Canneto le indicazioni sono comunque molto chiare, ci si immerge nella campagna fino ad arrivare a questa bella casa ricoperta di edera.
All’interno una sobria, accogliente eleganza: saremo in cinque, la prima arrivata ci attende sorseggiando un calice di Champagne Rosè di Gosset e io e mia moglie le facciamo volentieri compagnia nella saletta all’ingresso mentre ci raggiungono gli altri amici. Ci accomodiamo e ci vengono servite delle sottili cialde di parmigiano. Fin da subito colpisce la professionalità del personale: sempre presente e attentissimo senza invadere la privacy e soprattutto piacevolmente informale e pronto alla battuta senza dimenticare il contesto di rango in cui tutto ciò avviene.
Una volta arrivati anche gli ultimi due commensali ci trasferiamo in un angolo privilegiato della sala più grande: il nostro tavolo è infatti posizionato in modo tale da isolarci idealmente dagli altri clienti, forse perché siamo il gruppo più numeroso e probabilmente anche lietamente caciarone. Sta di fatto che in un altro ristorante lo stesso spazio avrebbe potuto tranquillamente essere occupato da otto persone: vere e proprie comode poltroncine, una candida enorme tovaglia e bicchieri di cristallo personalizzati con il logo del Pescatore fanno da base ad una accoglienza davvero senza sbavature. Antonio Santini, discreto e attento padrone di casa, segue e seguirà per tutta la serata la squadra in sala.
Ecco, se fino a questo momento mi sono dedicato all’aggettivo appagante, l’altro filo rosso della serata si è rivelato sotto forma di istruttività. Paragonando questa esperienza a quella dei percorsi di Francescana e della ancora troppo sottovalutata Peca, ho capito finalmente che il genere di cucina che mi emoziona non è quello proposto dal Pescatore. Intendiamoci, il livello della cucina, per quanto possa contare il mio giudizio, è magistrale, sublime nella cura delle materie e nell’attenzione per la presentazioni: ma l’esperienza, per quanto complessivamente eccellente, non mi ha provocato quella vibrazione costante che appaga a tutto tondo. Quindi credo, e qui termino e perdonatemi la digressione, che la cucina che preferisco sia quella in cui lo chef osa, sperimenta, azzarda e, al limite, sbaglia pure, rispetto a quella di questa grande cuoca che governa in modo eccellente una grande tradizione.
Tutto questo per motivare un nove alla cucina insieme ai due dieci di servizio e ambiente. Ho mangiato comunque benissimo e ho visto molto soddisfatte le persone con le quali ho condiviso la cena.
A partire da quando, poco dopo lo squisito benvenuto di una terrina di pomodoro dal profumo intenso con melanzane, sono stati serviti pane e grissini, preceduti da un indimenticabile profumo: il sapore, altrettanto stupendo, andava di pari passo con una fragranza e una freschezza assolute. Su tutti il pane al latte, favoloso.
La carta dei vini, di ottimo spessore ma non esaltante in relazione alla eccelsa fama del ristorante, viene affidata a furor di tavolo alla nostra valente esperta, la quale intelligentemente sceglie una tipologia che riesce ad abbinarsi in modo egregio praticamente a tutto pasto: inizialmente la richiesta è per un Pinot Nero di Franz Haas che purtroppo non è più disponibile. Un Blauburgunder 2002 di Laimburg si rivela un degno sostituto: inizialmente un po’ chiuso, piano piano diffonde il tipico ventaglio di profumi eleganti del pinot nero dell’Alto Adige.
Dal menù (ne chiederemo una copia alla fine della cena tirando un sospiro di sollievo per l’evitamento dello sforzo mnemonico legato alla ricostruzione-pro-recensione), veramente molto bello da vedere oltre che per l’invitante contenuto, soltanto io e l’altro rappresentante del sesso forte (!) scegliamo il percorso di degustazione estivo, proposto a 135€ per un antipasto, due primi piatti, due secondi, un assaggio di formaggi e un dessert. In carta sono presenti molte proposte del territorio, per loro natura “invernali” ma – ne avremo la conferma nel corso della cena – rese in modo magistralmente delicato, tale da preservarne l’essenza e il sapore senza appesantimenti.
E’ sublime la terrina di astice e salmone con verdure di stagione, caviale Asetra Malossol, anguilla in carpione al profumo di agrumi: oltre a presentarsi come un’elegante composizione nel piatto, regala grandi sensazioni di freschezza e leggerezza con il piacevole tocco esotico della sottile sfoglia di zenzero marinato. L’anguilla è insolitamente leggiadra e priva della benché minima untuosità che in generale caratterizza la sua carne.
Un gradino sotto, pur nella sua ottima armonia di sapori, il risotto con porcini, piselli ed erbette dell’orto: esecuzione perfetta ma nessun colpo al cuore e una presenza sottotono dei funghi, il cui profumo è decisamente lontano.
Si torna in vetta con l’essenziale perfezione dei tortelli di ricotta di pianura, burrata e parmigiano reggiano di collina: un piatto in apparenza semplice ma proprio per questo esposto alla banalità, servito anche alle signore per aiutarle a colmare le attese causate dalla degustazione dei due ghiottoni. In questo caso siamo alla poesia e la sensazione non è traducibile: va soltanto gustata lentamente per conservarla il più a lungo possibile.
Il percorso di avvicinamento al piatto del cuore, clou della serata, passa attraverso una spigola alle verdure con peperoncino, menta e altre erbe aromatiche, un’altra volta ottima ma lontana da un’irresistibile seduzione: bella presentazione, materia prima eccellente, ma manca qualcosa che ne fa un piatto indimenticabile. A questo proposito non ci sarebbe bisogno di dire che le aspettative altissime hanno sicuramente una grande rilevanza sulla percezione e sulla soglia di eccellenza che, in effetti, in questo caso, va ben oltre una supposta ricerca di oggettività nel giudizio.
Ed eccoci finalmente all’unico, vero momento di emozione: il rinascimentale petto d’anatra all’aceto balsamico tradizionale di Modena e mostarda di frutta è quanto di più ghiotto, succulento e appagante mi sia capitato di gustare negli ultimi tempi. Fantastica la carne, inarrivabile la salsa all’aceto balsamico, magnifica la mostarda.
Nel frattempo, mentre una ci accompagna per una parte di menù dedicata a crostacei e pesce, le altre donne sono alle prese con la grande tradizione padana e in particolare mantovana, chi con soavi insaccati come il culatello di Zibello, gras pistà (grasso di maiale battuto) e polenta e salame mantovano, chi invece con il sorbir d’agnoli, nel quale verrà versato un mezzo bicchiere di lambrusco a corroborare il brodo. Sui loro volti si leggono espressioni di grande soddisfazione, così come quando al foie gras cucinato in padella con pesche, frutti di bosco e vino passito di Verona che mi pento di aver rifiutato di assaggiare (probabilmente l’avrei sequestrato) viene abbinato un calice de “I Capitelli”, lo stesso recioto di cottura, del veronese Anselmi.
Non ancora paghi delle delizie incamerate dai nostri capienti stomaci, io e il mio compagno di degustazione ci facciamo tentare dalla piccola selezione di formaggi compresa nel menù: tutti italiani e di grande qualità, eccellenti in particolare il gorgonzola piccante servito con un’ottima mostarda e il superbo parmigiano. Il pane di accompagnamento, bianco con uvetta e frutta secca, si rivela un’altra profumatissima e fragrante chicca.
Proseguire con la scelta del dessert non si rivela affatto difficoltoso: devo dire che però mi sono alquanto pentito di non aver condiviso la scelta dei miei commensali, i quali hanno gustato una golosissima selezione di cioccolati, se non vado errato di Domori, presentati in varie forme, tra cui un delizioso mini soufflé. Infatti, il voler essere differente a tutti i costi mi ha dirottato su un delicato (forse troppo) e non indimenticabile tortino agli amaretti.
Al dessert è stato abbinato un calice di Porto Fine Ruby del 1998, ancora giovane e pieno di frutto: curioso che fosse stato richiesto uno cherry Pedro Ximenes, ma poco male dato che tutti i presenti hanno gradito molto.
Minuscoli capolavori di dolce freschezza: i cioccolatini ripieni, le meringhe, le cestine con frutti di bosco, i piccoli cannoli e gli stupendi basilico e scorzette di arancia canditi, la piccola pasticceria, servita su un bel vassoio d’argento, è eccellente.
Molto buoni anche i necessari caffè e defatigante il bicchiere di whisky Bowmore sorseggiato dall’unico vizioso fino in fondo nel corso della piacevole conversazione del dopocena nel salottino d’ingresso.
Parlare di rapporto qualità prezzo per i templi della ristorazione è forse fuori luogo, credo però che i 162€ a testa siano stati una spesa assolutamente sostenibile per un’esperienza che vale comunque la pena di essere riprovata. Per amor di precisione, la cifra scaturisce da due menù degustazione, quattro antipasti, due primi e due secondi piatti, oltre ad aperitivo, vino e distillati.
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